Barilla Forum 2010: la sfida del cibo

Il sistema-mondo, per come noi lo conosciamo, sta per finire. Questione di poco, qualche grado di temperatura, qualche crisi del petrolio e la nostra vita cambierà completamente. Questo è il messaggio urgente che emerge dalla discussione al Forum internazionale dell’Alimentazione organizzato da Barilla appena conclusosi (30 novembre-primo dicembre 2010, seconda edizione) all’Università Bocconi di Milano, sul complesso rapporto tra cibo e ambiente. Si sono aperti scenari globali e si è parlato del modello economico su cui si basa la produzione di cibo della nostra società, sullo sfruttamento delle risorse naturali e sull’impatto che hanno le nostre attività sulla natura e su ciò che ci circonda. E ce n’era, da dire…

Le voci da ascoltare sono state tante, tutte da scoprire tra cui il sociologo Jeremy Rifkin, con la sua visione estrema e non certo allegra (e secondo le sue parole, siamo solo all’inizio della catastrofe se non cambiamo nettamente, e subito! – il nostro stile di vita), Paul Roberts, l’autore americano de “La fine del cibo” che certo non la vede rosea, Carlo Petrini di Slowfood, e tanti altri (qui i video degli interventi): tutti invocano un cambiamento epocale. Che tocca il cibo sì, ma in realtà tutto il nostro quotidiano, il nostro modo di viverlo e di considerarlo, il cibo. Perché intorno ad esso ruota tutto: la nostra socialità (il cibo è tavola, è famiglia, si parla davanti ad un caffé), la nostra casa (cucina, frigo, dispensa, cantina), il nostro reddito (lavoro, carriera, scelte di vita). La notizia è che il modello che abbiamo seguito fino ad ora, adesso non è più sostenibile.

Le nostre abitudini, quelle dei paesi ricchi, sicuramente devono cambiare. Bisogna sconfiggere l’estremo paradosso: sebbene il pianeta che abbiamo sia in grado di sfamare tutti, una buona parte della popolazione muore d’inedia. In alcune zone si produce troppo, buttando via, e in altre troppo poco e, ci fa presente Roberts, non perché quella terra non dà frutto ma perché non è vantaggioso produrre in quei luoghi. Da una parte c’è obesità e confusione su ciò che si mangia, dall’altra, morte per fame e deserto. Abbiamo creato un mercato che decide chi mangia e chi no. Il meccanismo sembra perfido ma l’economista Nordstrom ci ricorda che il capitalismo non è il diavolo: è semplicemente una macchina. Che funziona. Bisogna solo capire come usarla in un altro modo. E racconta il caso di successo del microcredito in Bangladesh, la Grameen Bank, basata sulle donne dei villaggi più poveri del pianeta: il capitalismo che ha un fine sociale e ci guadagna. E’ dunque possibile fare un capitalismo diverso, ci dice.

“Contrazione (nei consumi dei paesi ricchi) e convergenza (nei paesi poveri)”, dice Petrini, queste devono essere le nuove parole d’ordine. Ma le idee sono tante, ognuno ha la sua ricetta: chi dice che a salvarci saranno gli Ogm (alta si leva la protesta di Nathalie Moll delle bioindustrie: va bene, il metodo non è perfetto, ma non buttiamo il bambino insieme all’acqua sporca! – ma il missionario Giulio Albanese si ribella con foga: è uno scandalo, gli Ogm sono la nuova schiavitù del terzo mondo!), chi tifa per il consumo “local”, chi per il vegetarianesimo, chi il biologico, chi dice che il mondo del futuro sarà delle donne e chi dice che sarà dei cinesi.

Ma tutti concordano su un punto: la soluzione non sarà la stessa per tuttiPerché non ce n’è una che vada bene per paesi ricchi e paesi poveri, per i paesi tropicali e quelli temperati. Le situazioni sono troppo diverse: in Europa possiamo cercare di consumare meno carne, in Africa no. In Europa possiamo pensare al biologico, in India non ha senso farlo. Guido Barilla dice: “Bisogna insegnare il valore del cibo nella scuola, sin dalle prime classi” Certo, è un passo. Di poco tempo fa uno studio in cui i bimbi rispondevano che il formaggio nasce dai banchi-frigo del supermercato (e Raj Patel ci ricorda che le grandi catene tentano di influenzarci sin da piccoli). In America non si cucina più, si diceva. Ormai le persone mangiano fuori casa per la maggior parte della loro vita. Perché non sanno cucinare ma più spesso perché non hanno tempo. E il tempo, quello che ci vuole per procurarlo, che ci vuole per prepararlo, fa il suo valore. Lo rende cultura, condivisione, tradizione. E ci dà la misura della qualità e della ricchezza della nostra vita.

Il cibo – e la sostenibilità della sua produzione – è diventato un problema globale, insomma, che ci tocca a tutti i livelli: dal mero prezzo per il consumatore finale, alla sicurezza alimentare, all’impatto ambientale degli allevamenti, all’esaurirsi del petrolio, alla speculazione, al tracollo del mondo agricolo, alla qualità della vita nelle città e nelle campagne fino al governo e alla politica. Dal Forum sicuramente è emersa una costante: la politica non si è ancora accorta che il nostro modo di nutrirci e produrre cibo deve cambiare. Non attua le politiche necessarie, non si muove dietro al presente e non guarda al futuro. Su questo erano, amaramente, d’accordo tutti.

Volete approfondire? Ecco i libri da leggere:
“La fine del cibo” di Paul Roberts
““La civiltà dell’empatia” di Jeremy Rifkin
“Il valore delle cose” di Raj Patel
” Karaoke Capitalism” di Kjell Anders Nordström

7 risposte a “Barilla Forum 2010: la sfida del cibo

  1. Questo articolo rivela l’importanza di cambiare al più presto il nostro modo di pensare al cibo, come lo produciamo e come viene inserito nella distribuzione. Tutti i filosofi della condivisione ci stanno mettendo in guardia sulla grave situazione in cui ci troviamo e sulla necessità di ripensare i nostri sistemi alimentari per riprendere il controllo sulle nostre vite. Bisogna parlare di più di questi argomenti.

  2. Concordo con quanto detto finora. l’argomento è interessante e non se ne parla abbastanza.
    chiediamoci però perché non se ne parla abbastanza. il fatto è che la filosofia della condivisione sta scomoda ai potenti del mondo, a chi impoverisce il mondo, lo sta portando alla deriva e non vuole che le cose cambino!

  3. Sento da amici panettieri dell’enorme quantità di pane che sono costretti a buttare ogni giorno perché non “fresco di giornata”, e dello spreco delle mense aziendali, scolastiche e pubbliche che non possono riciclare il cibo inutilizzato, e dei ristoranti e supermercati che buttano via quantità industriali di prodotti ancora perfettamente commestibili a causa di date di scadenza iperprotettive, spesso più utili alle tasche dei produttori che alla salute dei consumatori. senza poi dimenticare le tonnellate di prodotti (dal latte alle arance) mandati bellamente al macero per non abbassare i prezzi di mercato, e i magazzini nazionali e comunitari che hanno riserve di cibo ben inferiori a quanto previsto dalla legge e dal buonsenso perché costa troppo gestirle.

    Ma c’è di peggio: il cibo è diventato preda della speculazione in borsa, con investitori senza scrupolo e senza controllo che ne fanno salire artificialmente il prezzo. E allora si capisce il perché delle “rivolte per il pane”, della rabbia dei poveri, delle morti per fame. Quale povero, guadagnando due dollari al giorno (se li guadagna!), può permettersi di pagarne uno per un solo chilo di farina? E la farina da sola non basta, ci vogliono acqua pulita, carbone, olio, verdura, frutta etc… che diventano lussi impossibili…

    Penso che sia semplicemente un’oscenità che dopo tanto parlare, tanti dispendiosi ed enfatici summit a tutti i livelli per debellare la povertà entro il 2015, continuino a morire di fame uomini e donne in molte parti del pianeta. C’è sicuramente un fallimento della politica che invece di servire il bene comune si è arresa alla logica del profitto.

    Sicuramente oggi siamo tutti a corto di soldi, ma non dovremmo essere a corto di cuore. Condividere quando si ha il sovrappiù forse è facile (certo non per la “casta”!). Condividere quando si è in difficoltà, richiede grande amore. Un amore così un segno di speranza, è una dichiarazione di fiducia, è attestare che l’Umanità non è morta.

  4. In risposta a Marco.
    Tu dici che la filosofia della condivisione è scomoda ed è vero, data la sua visione anti-utilitaristica che va a collimare con le logiche dell’attuale sistema economico capitalistico di stampo anglosassone. Il problema della crisi alimentare mondiale è molto più grave rispetto a come che i mass media lo presentano ed è preso sotto gamba perché sono ora tutti presi dalla crisi finanziaria. C’è inoltre un aspetto da tenere presente, che forse sfugge anche per la complessità dell’argomento. Attraverso nuove forme di condivisione dei risultati delle loro ricerche, diversi studiosi avrebbero individuato lo svilupparsi di uno scenario che non esclude un possibile crollo delle borse, questa volta più grave dei precedenti e di portata più ampia. Pensiamo a cosa è accaduto in Argentina dove di colpo le persone hanno perso tutto. Nessuno ha dimenticato le drammatiche immagini di gente inferocita che assaltava le banche dopo aver perso tutti i propri risparmi. Diciamo che lo stesso sta per accadere da noi, ma di dimensioni molto più estese. E pare che alcuni filosofi della condivisione l’abbiano capito.

  5. forse è come qualcuno di voi dice, altro che crescita, rilancio della produttività e della competitività. per questo io e mia moglie abbiamo chiuso c/c che avevamo in banca e li abbiamo… (…) non è accettabile che i risparmi di una vita e i soldi guadagnati con tanti sacrifici se li prendano le nostre banche o vadano tutti a finire nelle casse di questo stato strozzino per quadrare bilanci e sperare di coprire debiti assurdi.

  6. Ho trovato l’argomento molto interessante! pure i vostri commenti ^_^
    Il cibo è davvero diventato un problema globale, che ci tocca a tutti i livelli.
    La politica però dorme! non si è accorta che il nostro modo di nutrirci e produrre cibo necessita di un cambiamento. Come riporta l’articolo, “non si muove dietro al presente e non guarda al futuro”.

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