Certo, partiamo dal presupposto che la violenza non ha bisogno dei parchi per essere consumata: l’aggressore può avvalersi di una via deserta come dell’androne di un condominio. Però il tema della sicurezza nei parchi è centrale per la loro frequentazione. E forse i parchi – almeno per come li realizziamo ora – non possono garantire una protezione efficace.
Recintarli sarebbe un’idea, ma a quel punto non sarebbero più liberamente accessibili e comunque richiederebbero del personale ad aprire e chiudere i cancelli. Le telecamere potrebbero essere una risposta, ma richiedono manutenzione e non impediscono le aggressioni. A questo punto forse l’unica possibilità è cambiare la nostra concezione di parco pubblico e con lei anche quella di verde pubblico. Non più un’area unica con prati piante, alberi, aiuole panchine e fontanelle, vista spesso come fonte di spesa, ma qualcosa di più integrato alla vita cittadina. E quindi presidiato dall’attività, anche commerciale, delle persone.
Il parco insomma dovrebbe diventare un luogo abitato, denso di opportunità, non una terra di nessuno destinata solo a piante e fiori, ma luogo di attività agricola, didattica, sportiva, turistica, sociale, legata alla ristorazione o altro, di una tipologia che si sposi al meglio con l’elemento vegetale e paesaggistico. Il parco dovrebbe allungarsi nei quartieri, penetrare nelle piazze e nei condomini. Insomma, passeggiare o attraversare un parco pubblico non dovrebbe darci pensiero (anzi!) né tantomeno mettere a rischio la sicurezza delle donne.
Per l’ex-area Expo si sta parlando di “verde diffuso” invece che di un’area destinata interamente a parco. Potrebbe essere una risposta? A volte persino dove esiste un parco importante come quello di Monza, nella città poi il verde sparisce, riducendosi a poco, come se il parco bastasse. Siamo sicuri che sia così? Che ancora il verde come “riserva”, ghettizzato in città nelle parti meno commercialmente rilevanti, o ridotto a triste aiuola senza cure – sia il verde che vogliamo?