La discussione sulle palme del nuovo allestimento dell’aiuola sponsorizzata da Starbucks aveva del resto ha acceso gli animi e la strumentalizzazione politica, che ne ha fatto bandiera del tema dell’immigrazione, non ha certo contribuito ad un confronto sereno di opinioni su quella che alla fine è una semplice scelta vegetale inusuale, per altro con una durata prefissata di 3 anni.
L’uso di termini come “scempio”, “africanizzazione”, palme “blasfeme”, con slogan come “Difendi Milano” – come se fosse in gioco l’essenza stessa della città (le palme di questo tipo sono cinesi e abitano i cortili milanesi da almeno 100 anni) o l’hashtag #motosega – ha estremizzato il dibattito sui media attirando sulle piante una rabbia insensata, decisamente degna di miglior causa. Il gesto dell’incivile vandalo di turno, che ha pensato bene di incendiare una palma, è conseguenza di un clima esasperato che si è focalizzato su un progetto pagato da altri e a scadenza con piante assolutamente incolpevoli. Peraltro con un forte danno di immagine alla Milano contemporanea con aspirazioni internazionali.
Ed è certo che per alcuni è molto più facile accanirsi sulle palme, che in questo momento hanno la massima visibilità, che valutare e dire la loro su altri progetti che incideranno molto di più sulla città: uno per tutti, il futuro degli scali ferroviari milanesi, soluzione che, una volta deliberata, al contrario delle famigerate palme, sarà definitiva. Non solo. La devastazione dei filari di alberi, ridotti a moncherini inguardabili, che ha luogo in queste settimane in tante città non ha certo provocato tanta levata di scudi. Tutta questa voglia di partecipazione allora dov’è? E dov’era tanto amore e tanto senso di appartenenza per viali e piazze, quando non si parlava delle palme di Piazza Duomo?