Una tradizione storica, quella della coltivazione delle olive bianche, portata avanti in Italia dai monaci, che le custodivano per estrarne un olio sacro, destinato alle cerimonie religiose e all’utilizzo nelle chiese. Diffuso tra il VII e il X secolo d. C., questo ulivo – chiamato “leucolea”, è ancora presente allo stato selvatico (e in vendita in alcuni vivai) in Calabria, Basilicata e Toscana.
Estremamente delicata a causa della facilità con cui si segna, la drupa dell’ulivo Leucocarpa è diversa come composizione dalle classiche olive per un solo aspetto: la pigmentazione. In pratica l’oliva, verde nella fase giovanile, con il procedere della maturazione non si colora, e rimane chiarissima grazie ad una mutazione genetica naturale che ha creato il blocco degli antociani. Può al limite assumere una sfumatura giallina. Questo “albinismo” però non le permette di assumere molto sapore.
Questo tipo di fruttificazione a drupa chiara, che si verifica a partire dal 5° anno d’età, rende l’albero particolarmente decorativo. Ma il Leucocarpa ha un limite: è estremamente difficile riprodurlo per talea. Occorre insomma seminarlo. L’ulivo a frutto bianco è stato anche protagonista di una puntata di Geo&Geo nel 2018. Data la sua particolarità, il CREA ne ha fatto oggetto di ricerca e studio e nel tempo, agronomi, agricoltori e appassionati hanno cercato di preservarne le piante. Così ha fatto Alessio Grandicelli, appassionato della storia etrusca, che ha annunciato, con un post su Facebook pubblicato in questi giorni, che nella Tuscia ne ha coltiva con cura un raro esemplare.