Addio buste, ma c’è plastica e plastica…

Ormai è fatta: dal 1 gennaio 2011 la produzione di sacchetti per la spesa di plastica non biodegradabile è fuorlilegge. Addio plastica quindi? Affatto. Continueremo ad esserne circondati e ad utilizzarla per tutto il resto, con tutti i suoi vantaggi (innegabili) e svantaggi (altrettanto innegabili). Ma si fa presto a dire plastica. Il fatto è che dietro a questa termine di uso comune si nasconde una famiglia di materiali con caratteristiche (e rischi) molto diversi. Quali sono dunque le diverse plastiche con cui abbiamo a che fare e come possiamo riconoscerle? L’abbiamo chiesto all’Ing. Ballarini: ecco cosa ci ha detto.

Il modo più infallibile per capire che tipo di plastica abbiamo fra le mani è cercare il codice identificativo di riciclaggio, ovvero quel simbolo a forma di triangolo con un numero riportato su imballaggi e oggetti di uso comune. Potremo così riconoscere i vari tipi di polietilene (identificato dai codici 1, 2 e 4), il polipropilene – scoperto dal nostro Giulio Natta che si è guadagnato il Nobel per questo – (codice 5), il polistirene o polistirolo (codice 6).

Tutti questi materiali sono ammessi per l’utilizzo per alimenti, quindi almeno da questo punto di vista sono assolti per mancanza di indizi. E meno male perché ne siamo circondati, contengono tutti i nostri cibi, sono utilizzati per i tubi dell’acqua potabile e addirittura come fili di sutura in chirurgia. Se fanno male, insomma, siamo spacciati…

E poi c’è il PVC (codice 3). E’ insostituibile per le costruzioni, ma per produrlo si usano prodotti molto tossici e cancerogeni. Non va dunque utilizzato per i cibi e non va incendiato, perché bruciando produce diossina.

La raccolta differenziata però, almeno per come è prevista ora, non ci chiede di distinguere le plastiche, che vanno inserite tutte in un unico contenitore dedicato. Conoscerle è comunque utile per capire meglio che tipo di impatto hanno questi materiali sull’ambiente che ci circonda.