Ebbene sì, il Festival di Sanremo l’ha vinto Occidentali’s Karma, la curiosa canzone di Francesco Gabbani che parla di contemporaneità e in particolare della nostra recente “cotta” per l’Oriente. E come tutto, questa tendenza si riflette anche nei nostri spazi verdi: i giardini zen vincono concorsi (come quello della manifestazione Orticolario a Villa Erba l’anno scorso) e i corsi dedicati, come quello organizzato dalla Scuola Agraria del Parco di Monza l’anno scorso – fanno il pieno di iscritti, a fronte di costi nient’affatto popolari.
Non solo. E’ ormai da qualche anno che il Giardino dell’Istituto Giapponese di Roma fa il tutto esaurito poco dopo l’apertura alle visite, rigorosamente guidate. Il successo è tale che le visite sono organizzate per rigidi turni di mezz’ora… E da qualche tempo si trovano anche da noi i cosiddetti “macrobonsai”, bonsai giganti da giardino ovvero annosi alberi potati a forma secondo la tradizione nipponica.
E seppure questa aspirazione ci parla del nostro estremo bisogno di ritrovare uno spazio di contatto con la natura, spesso – come rivendica la canzone di Gabbani, non porta con sé la consapevolezza dei significati profondi insiti in questo modo di fare giardino così affascinante ma anche così estraneo e lontano dalla nostra cultura. Né la voglia di comprenderli. Tendiamo insomma ad appropriarcene etichettandoli come “zen” e scimmiottando la loro essenza (Namasté Olé!), copiandone superficialmente l’esteriorità: l’acero, la lampada “in stile”, i ciliegi, ilò laghetto, il ponticello. Oppure mixiamo e confondiamo i simboli, unendo statue del Buddha, cerimonia del thé, sushi, bacchette e bambù, come nel video della canzone, pensando che questo basti a trasportarci in un attimo in quella dimensione di sospirata pace.
Un’aspirazione alla bellezza che ci fa capire quanto è profonda nell’essere umano di oggi la necessità di ricostruire una relazione d’armonia con l’ambiente verso cui noi – abitanti di instancabili città che hanno smarrito umanità e anima – sentiamo un intimo, insopprimibile anelito.
Invece c’è molto, molto di più dietro a questi oggetti: un mondo di significati in cui lo spazio esterno è funzionale allo sguardo e alla meditazione di chi osserva, alla concentrazione che si condensa e si ritrova in ogni singolo componente della “scena”, tanto che la scelta di una roccia può richiedere mesi di assidua ricerca, perché occorre che abbia una certa forma, un certo peso, un colore, insomma quel qualcosa utile a indirizzare il pensiero e a far sì che nel silenzio possa mettersi in relazione con ogni singolo elemento che la circonderà nel giardino. L’Oriente insomma ci offre una chiave per dar vita a qualcosa di unico che però occorre comprendere e fare proprio, prima che copiare, proprio come “scimmie nude”. Anche in giardino.