Ultimamente si fa un gran parlare di ecologia: per la prima volta forse stiamo realmente guardando le attività produttive per l’uomo non solo in termini di quello che danno, ma anche di quello che potenzialmente tolgono all’ambiente. L’impatto di un’industria sull’ecosistema che la circonda insomma ci interessa e valutare questo ci aiuta a capire cosa possiamo fare per migliorarlo. Andando a visitare i grandi vivai produttori della provincia di Pistoia in occasione del convegno “Vestire il paesaggio” di questi giorni, abbiamo avuto l’opportunità di parlare di questo con i vivaisti stessi. E alcune informazioni in questo senso sono veramente sorprendenti.
Conoscere come funziona un grande vivaio che coltivare migliaia di piante all’anno su un terreno limitato è importante. E farlo parlando con i diretti interessati è un’opportunità per sfatare “miti” che spesso si formano nei media e rispondere con cognizione di causa alle domande delle persone comuni. La prima cosa che viene in effetti da chiedersi nel caso della coltivazione intensiva è inerente al consumo dell’acqua. Per far crescere le piante se ne consuma parecchia… e tutta quella che disperde dopo aver irrigato? Non è forse uno spreco di risorse? E l’anidride carbonica prodotta?
Andiamo con ordine. Dell’acqua utilizzata per l’irrigazione abbiamo parlato con Francesco Vignoli, vivaista specializzato in glicini (ricordate la sua intervista su Fiori&Foglie?). Nei vivai della cintura di Pistoia l’acqua viene da tempo “riciclata”. Funziona in questo modo. Si coltiva prevalentemente in contenitore, con il sistema capillare (ovvero un tubicino per ogni vaso: il sistema a pioggia è impiegato solo in aree ristrette). L’acqua che la pianta non utilizza immediatamente esce dai buchi sul fondo del vaso. Per recuperare quest’acqua (detta “di percolazione”), i vasi sono posti su una superficie con una pendenza del 5%. E’ poco ma basta per far scorrere l’acqua lungo appositi canali che la convogliano verso un bacino unico, dove si accumula per essere riutilizzata, insieme alla quantità mancante, per la seguente annaffiatura che verrà effettuata grazie ad una pompa che rimanda in circolazione il contenuto del “lago”. Non solo.
L’acqua che viene usata dal questo settore e che alla fine del suo ciclo, viene riemessa nell’ambiente, è un’acqua ricca di sostanze nutrienti, non inquinata da veleni. L’utilizzo di anticrittogamici e insetticidi è infatti assai ridotto nell’attività vivaistica moderna e utilizzato con enorme attenzione e con la consulenza di esperti. Discorso ben diverso invece riguarda la coltivazione intensiva di piante alimentari con cui spesso la si confonde.
Per quanto riguarda l’anidride carbonica emessa dall’attività di floro-vivaismo, abbiamo parlato con Gilberto Stanghini, vivaista pistoiese, che ha studiato con grande passione questo tema. Dalle sue ricerche in collaborazione con l’Università di Firenze, sono emersi dei dati che danno un bilancio in attivo del saldo tra anidride carbonica emessa e quantità di C02 assorbita. Ed è uno dei pochissimi casi nella produzione industriale. Certo, tanto si può fare e si deve fare per migliorare l’impatto ambientale delle attività umane, ma il vivaismo, grazie alla stessa materia vivente che tratta, è sicuramente uno dei pochi ambiti che vale la pena incrementare, perché ci conferma, casomai ce ne fosse bisogno, che sono le piante stesse la chiave di volta per la nostra sopravvivenza e per il miglioramento dell’ambiente.